Vernissage  19 maggio ore 18,30

FINISSAGE 15 giugno, ore 19,30

Comunicato Stampa Finissage 15 Giugno 2012

"PRIVO DI TITOLO"

a cura Prof. ROSANNA RUSCITTI

presentato dal Prof. UMBERTO CURI

"Conversando con Sandra e le Opere"  di Sandra Marconato

Abano Terme 2012  19 maggio - 17 giugno

LA CAMBOGIA DI MAURIZIO LONGHIN

“Disegnare con la luce”. E’ questo – come è noto – il significato originario del termine fotografia, quale risulta dalla sua radice etimologica. E dunque essa non si limita affatto, come troppo spesso si continua a credere, a riprodurre la realtà, non è finalizzata a creare un “doppione” di ciò che è, trasferendolo su uno spazio bidimensionale. Fotografare vuol dire utilizzare la luce come medium di un’attività che crea una nuova realtà. Di conseguenza, in essa non vi è nulla di banalmente “imitativo”, nulla che possa alludere al lavoro ancillare di chi voglia soltanto ricalcare il dato reale, poiché al contrario qui si tratta di portare alla presenza ciò che non appare. Rendere visibile l’invisibile – questa è l’ambizione principale della fotografia. Far emergere dall’occultamento ciò che, altrimenti, resterebbe allo stato di latenza. Impiegare la luce per strappare all’oscurità non soltanto singoli dettagli, ma un mondo intero, altrimenti destinato a restare non visto, e quindi sconosciuto. La fotografia scava, perlustra, esplora, fruga, riscatta, e con ciò porta letteralmente alla luce, rende trasparente, una dimensione abitualmente nascosta. Ma nel fare questo, essa  immediatamente anche interpreta ciò che viene rivelando, ne propone una lettura inevitabilmente “tendenziosa”, conferisce rilievo a qualcosa, proprio perché mette altro in secondo piano. Ciò che abitualmente si chiama il “gioco” del chiaroscuro corrisponde precisamente a questa funzione: far emergere una gerarchia di valori, tale per cui ciò che è in “chiaro” comandi ciò che rimane sia pure parzialmente oscurato.

Il lavoro di Maurizio Longhin esalta questa funzione rivelatrice e insieme ordinatrice della fotografia. Non vi è nulla, nei suoi scatti, che possa essere riportato alla pretesa asettica della mera documentazione . Le sue foto non costituiscono un reportage, non “riportano” alcunchè.  Piuttosto esse delineano nitidamente un percorso, propongono una chiave di lettura, valorizzano pienamente la funzione intensamente rivelatrice della luce. Particolarmente e-vidente di questo modo concettualmente pregnante di realizzare la fotografia sono gli scatti che riguardano la Cambogia, dai quali emerge con forza un assunto di fondo. Quel paese così remoto da noi, e insieme così vicino ai nostri incubi. Quel paese così ricco di bellezze naturali e così prezioso per le testimonianze artistiche. Quel paese così carico di tradizioni e insieme così proteso verso un nuovo che ancora stenta a realizzarsi – quel paese si ritrova descritto con la forza evocativa di alcune immagini decisive. La tomba di Pol Pot, il cumulo dei teschi, il fitto reticolo di una cancellata, perfino il rigore geometrico delle ali di farfalle, dicono fino a che punto, in questo paese bellissimo quanto sfortunato, su tutto domini la memoria ancora fresca di decenni di guerre e devastazioni, che proprio qui hanno raggiunto forse il più profondo abisso di atrocità che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto.

Longhin indaga questo mistero con rispetto e insieme con grande delicatezza, senza la pretesa di riuscire a spiegarlo, senza l’arroganza etnocentrica di chi voglia esibire la stravaganza di un mondo esotico. Al contrario, la successione degli scatti conferisce gradualmente forma ad un interrogativo, nel quale si coglie al lavoro una sensibilità acuta, mai offuscata dall’arroganza. L’accostamento delle immagini che ritraggono una scimmia madre col suo piccolo, alle bellissime immagini di alcune adolescenti e poi di un anziano, assorto e quasi chiuso in se stesso, concorrono a formulare il problema che queste fotografie rendono visibile. Come è stato possibile ciò che è accaduto? Da quale fondo oscuro e indecifrabile può essere scaturito un massacro protrattosi per decenni? Come si “spiega” – e, più ancora, è davvero spiegabile – la follia che ha condotto alla strage di 2.300.000 esseri umani, più della metà della popolazione, nel giro di pochi mesi? E poi: come tenere insieme le meraviglie di una scultura di straordinario impatto plastico, di un’architettura solare e magniloquente, di una musica e di una pittura di grazia raffinata e rarefatta, con le montagne di teschi, la desolazione delle città martoriate, la distruzione delle campagne? Nelle foto di Maurizio si coglie nitidamente tutto lo sgomento dell’autore di fronte all’emergere di questa grande tragedia. Ma si coglie anche la consapevolezza di un aspetto troppo spesso trascurato o totalmente rimosso, che può essere sommariamente indicato nei termini seguenti.

Fra le sontuose fastigia architettoniche del passato e le rovine del presente, fra la bellezza struggente di taluni scorci naturali e le insidie delle sabbie mobili, fra la grazia di alcuni volti e il terrore che ancora si legge nello sguardo di alcuni testimoni del recente passato, non vi è contraddizione. Di tutto ciò è capace l’uomo – dell’arte sublime e delle abiezioni della violenza, del sorriso e del pianto. Sì perché, come scriveva Sofocle, “Molte sono le cose terribili, ma fra tutte la cosa più terribile è l’uomo”. Le foto di Maurizio rendono visibile questo enigma, senza l’arrogante pretesa di spiegarlo. Disegnano con la luce, evidenziano col chiaroscuro, questo inestricabile intreccio di bene e male, di grandezza e miseria, di amore e violenza, che è l’uomo. Di fronte alla costitutiva e insuperabile ambivalenza dell’umano, la scrittura con la luce di Maurizio si arresta assorta e insieme commossa. Quale suggello di questa esplorazione delle straordinarie  potenzialità positive, e insieme degli abissi di negatività, che caratterizzano la condizione umana, resta una foto, uno scatto, un’immagine. E’ quella – bellissima - di una bambina, in procinto di sbocciare nell’adolescenza. La delicatezza dei lineamenti, lo sguardo intenso, il silenzio che la circonda, esprimono con grande efficacia la consapevolezza dei limiti invalicabili di ogni esperienza umana. Ma atteggiano anche, nella profondità di quegli occhi, il balenare vivo e penetrante della speranza.

UMBERTO CURI Padova, aprile 2012