Maria Micozzi nasce a Tolentino nelle Marche il 5 giugno 1939.Fino da giovanissima scopre la pittura e poi la scultura come mezzi congeniali di espressione, propensioni non assecondate nell'ambito familiare.

Conseguita la maturità classica si iscrive alla Facoltà di Matematica e Fisica all'Università degli Studi di Milano; successivamente, sempre a Milano, coltiva i più amati studi di filosofia, quindi di neuropsicologia e psicoanalisi ed infine epistemologia orientandosi versola teoria dei Sistemi Complessi nella concezione “relazionale” di Gregory Bateson.

Non ha comunque mai abbandonato la comunicazione artistica, strutturandosi da autodidatta. La sua opera fonde una qualità pittorica esemplare sulla grande tradizione del rinascimento con la sperimentazione di inedite soluzioni tecnico-formali affine allo spirito delle avanguardie di indirizzo concettuale.

La prima mostra personale è del 1963. Dal 1985 opera in campo artistico come libera professionista. Il suo lavoro ha suscitato molto interesse in critici come Pierre Restany, Marcello Venturoli, Giorgio Di Genova, Federico Zeri, Paolo Levi, Rossana Bossaglia, Floriano De Santi.

MARIA MICOZZI O IL MISTERO DEL CORPO

Di Floriano De Santi

La materia, il corpo e la forma. Referenze, riferimenti e anche illusioni, frammenti e una loro ricongiunzione nella  complessità. Tracce e croma che divengono alfabeti; locazioni e trasvoli; labirinti, disegnilibri e simmetrie sotto il velo dell'improbabilità,  sigilli antichi (o percepiti come tali) che si volgono in innovanti modularità linguistiche.
Per Maria Micozzi raggiungere il modello generativo del segno, significa impiombare il processo genetico dell'opera, ma significa altresì aprirne il processo illimitatamente simbolico. L'immoralità dell'arte - annota Blanchof - è data dalla sua continua, immediata, intrinseca mortalità, insomma dalla sua infinita modellazione, che la rinnova ogni volta non solo in toto, ma anche in concreto nel vide plein del linguaggio, meglio nel vide della "lingua" che è anche il plein della figura.
La ricerca della Micozzi si presenta subito come del tutto straordinaria ed eccentrica: spostata dal baricentro attorno a cui di norma si raccolgono i linguaggi artistici, almeno i più correnti; intenta ad organizzarsi sulle diffrazioni, sul valore dello strappo,  dello spettro deviato, della disimmetria, ma allo scopo di raggiungere inusitate cuciture e combinazioni. La sua è abbreviatamente (e per citare un suo studioso, Vladimiro Zoccd ), una pittura che "compone per frammenti": spazio di relazioni e di parti distinte che mantengono la loro autonomia, ma poi si rinvengono ulteriormente
inanellate da nessi poetici.
La forma è il più spesso ed esplicitamente forma in potenza: la si direbbe materia in atto. Ma perché essa si dia, affinché infine esista, deve disvolgersi da una radice necessaria e profonda, da una matrice che sia corporeità internata e connaturata all'anima e di conseguenza alla lingua. Matrix e mater al contempo che - in opere della Micozzi tipo Connessioni del 1990 e Schemi di campo 1998 - plasma e rimaterializza, secondo i moduli dell'artista, tutto ciò che è bassa materialità (tela, spago e tavola), opo averla elaborata nell'immaginazione, dando vita a qualcosa che realizza il
épassement di se stessa, in uno sforzo di autoliberazione della realtà e degli impulsi.
ome prolungando anzi, o proiettando al di sopra di sé, la parte positiva e costruttiva egli istinti che la sollecitano alla base, l'immaginazione micozziana ha oggettivato ella coscienza un archetipo e un regime, forse gemmazioni di un unico ceppo o roviglio atti a manifestare la percezione del tempo confitto in uno spazio in cui il assato è ombra e il futuro è invisibile al pari del muro sul quale si affaccia la stanza di Gregor Samsa nella Metamorfosi di Kafka.
l concetto di materialità e matrice è ovviamente molto aggrovigliato - e non sempre ucidamente sdipanato - in Micozzi. Ma questo non deve stupire: giacché in lei, come n ogni vero artista, il contorno del pensiero e della poetica non si stacca dai caratteri estetici di base: dall'eco ispirativa che prende a crescere dalla memoria. E del resto,
 non del tutto incidentalmente, la pittrice e la scultrice che è Micozzi è venuta  crescendo accanto alla studiosa di matematica, neuropsicologia e psicanalisi. Da  cui ilpassaggio verso interessi epistemologici e il riflesso che essi non possono gettare sul lavoro espressivo identificabile nei dipinti e nelle sculture.  Si sa come i dualismi di Bachelard3, immaginazione contro realtà, facciano della  réverie un limbo felice proprio in virtù della sua inconsistenza, laddove invece lo  stilema espressivo della Micozzi è innanzi tutto un dar corpo, il far convergere - anche  se non  necessariamente nei termini estremistici di un Rainer o un Bill Viola -  fantasmagoria, pensiero e volontà, in una "costruzione" che diremo ultimativa.  Mentre il filosofo francese s'arrende all'inevitabile scissione, allo sdoppiamento di
animus e di anima, riconoscendo l'esistenza dei "contrari" e non illudendosi di comporla, la nostra artista punta sul mito della totalità e la realizza nel proprio lavoro per cicli, livello di rappresentazione simbolica così della totalità stessa (Malleus maleficarum del 1997) come dell'iter del suo perseguimento (La seduzione. Ossessione e paura nei trattati degli inquisitori del 1997), e persino la compone in una convergenza programmatica di arte e di pensiero, di visionarietà e concetto (Pandora. Il male bello del 1992).

Va da sé - e del resto è stato detto da altri - che non l'ambito intrinsecamente psichico sia il tema esatto sul quale si commisura il lavoro della Micozzi. L'interfaccia-confine su cui s'affaccia l'opera dell'autrice marchigiana mira a proiettarsi verso altre dimensioni per uncinare altri grani di verità, che non possono essere più colti dentro una composizione o un'idea, ma nel movimento erratico di un'indagine: nella quéte dell'enigma (...sarò io a ricordare del 1992). Ciò in un riallaccio ideale a una metafisica primordiale di origine e intensità mitico-gnostica (I panni dei riti del 2001), giusto in rapporto al pensiero che ritiene inutile cercare una realtà in grado di ricostruire una base per la nostra soggettività se essa si estranii da quello che è genere ed assoluto.
 Lo schema ritornante nei testi visivi di Micozzi è, comunque sia, sensuosamente e plasticamente delineato: ed è quello di un corpo femminile pieno e vitale e tuttavia acefalo. Privato di testa, dunque non leggibile in termini di identità psicologica, sociale o storica (e meno che meno descrittiva e aneddotica). Nell'Histoire de l'oeil, George Bataille4 ha mostrato come oltre la nudità della carne ci sia sempre un'altra nudità nascosta. Una certa Simone si è ficcata un occhio morto in vagina: un occhio cieco nel cieco pertugio, un occhio che non vede più nulla in un andito che si chiude dopo un breve tratto diventando veramente un veicolo cieco. L'Eros della Micozzi, come quello di Bataille, è una nudità oltre la nudità, un'asimmetria che si moltiplica oltre la vertigine.
Si vedano in tal senso - per modo di esempio - dipinti del tipo Trasvolo del 1997 e Finestre del 2002, nei quali il mistero del corpo inizia dove inizia ogni corpo. Soltanto che non si sa mai bene dove esso inizi: non se ne conoscono i confini. Quello che si è chiamato anima o spirito o mente è separato dal corpo? Non si può rispondere a questa domanda, perché dove è segnata la linea di confine c'è l'inaggirabile, questo almeno osserva Lévinas'. Ciò presuppone che quando ci si sia inoltrati nel deserto del nulla, e se ne percorrano sino in fondo, sino all'estremo limite i sentieri, alla fine si
oltrepassa una frontiera e si va oltre il niente. Si giunge alla percezione di essere: che cioè esiste una nuda esistenza, la quale sta oltre il dolore, ma alonata dall'angoscia, e anche tale esistenza nuda è ognuno di noi. La Micozzi simbolizza tutto ciò in un nudo muliebre chiuso in un'ambiente senz'aria, quasi volesse separare quel grumo di carne dal grumo di storie e di immagini che è, o dovrebbe essere, ogni singolo Es. Ma se affondano le mani entro il grumo che c'è, che ciascuno di noi è, tutto si sfarina e scorre tra le dita per riaccumularsi di nuovo in un ennesimo altro grumo. Del resto la Micozzi è una pittrice e una scultrice aperta al nuovo, ma è irriducibile a qualsiasi movimento di tendenza. Ha lambito il Simbolismo romantico di Fùssli e di William Blake, e per lei l'arte classica non è l'arte della "divina bellezza", ma l'arte di espressione che esplora "la natura fin nei muti recessi, nelle viscere buie del bruto'''.
Ha attraversato il Surrealismo in un gesto di attrazione e di repulsione, di oscillazione continua, che in nessun suo "studio" ha trattenuto all'interno della mappa dell'avventura bretoniana. Ha affrontato la riflessione della "scuola metafisica", con aperture verso Nietzsche, Heidegger, Rilke, Benjamin, Borges, e dopo il nascente interesse per le inesplorate frontiere dell'inconscio freudiano e junghiano. Ha avuto  l'ambizione costante, dall'inizio degli anni Ottanta (da Il sogno di Cada del 1983 a La  stanza della seggiola rossa del 1984), di costruire una "pittura colta", senza che alcun  bricolage culturale s'intrecciasse, o per lo meno interloquisse, con la grande maniera  italiana del Cinquecento: Rosso Fiorentino, Parmigianino, Perin del Vega,  Primaticcio, Daniele da Volterra oppure Tibaldi.  In effetti nelle tavole ad olio, nelle strutture in ferro o in terracotta, in carta e rete  metallica, negli aforismi grafici, ci troviamo di fronte ad un Work in progress che  letteralmente non ha luogo né collocazione definita, all'interno della storia artistica  non solo nazionale ma europea. Se passiamo dal contesto culturale alla produzione creativa propria della Micozzi, questa impressione di atopia, anzichè risolversi nella  presenza dell'opera, si accresce fino ad assumere - come ho già detto - le dimensioni  di un enigma. E difatti, in Cuspidi e in Livelli e contorni del 2002, non ci troviamo  davanti a ciò che abitualmente si definisce una pittura o una scultura, sì invece in  presenza di un immenso accumulo di frammenti che sembra non possa essere  composto da nessuna logica, a meno che non sia possibile ipotizzare propriamente  una logica del frammento, assunta dunque come una vera e propria modalità di  pensiero visivo. La figura micozziana quale s'infutura o quale comunque si inoltra nell'imposto delle opere. aspira infatti ad una realtà in sé autentica che è situata al di là delle parole e delle forme pittoriche appariscenti: oltre le categorie visive alle quali la cultura occidentale ci aveva condotti e assuefatti'. Non di meno realizzare un senso del mondo non significa altro che scoprire che questo possibile realizzato, definito  convenzionalmente realtà, non cancella tutti gli altri possibili, ma paradossalmente li invera tutti. E', proprio per dirla con il Bataille de La limite de l'utile, la Micozzi qui  abbandona l'opera cui sta lavorando alla stato di frammento, per procedere,  attraverso un altro frammento, fin "dove l'uomo attinge ai limiti del possibile". Nonostante ciò, tali frammenti - come le stelle di una strana costellazione - ruotano  attorno a un punto, a un sole che talvolta, malgrado le esplicite affermazioni  dell'artista sulla sua adesione poetica ad una sorta di saffiano culto solare, diventa il  sole nero di Thanatos: oscurità splendente, eruzione e inabissamento. Per cui l'opera sua più frammentaria risulta anche, al contempo, l'opera più unita, più stretta al suo  tema segreto: l'opera di una perseveranza quasi religiosa che l'apatheia, la rinuncia al pathos del mondo e delle sue oscillazioni, trasforma la vita in un xenos bios, in una vita straniera. Ad ogni modo, quello che nell'opera di Maria Micozzi - da Nella casa del poeta del 1992 a Nastri e serrature del 1994 e a II subbio del 2002 - si tende a cogliere, è il flusso costante della vita come emozione fantastica, fermato e forzato con l'intenzione di vedere attraverso l'occhio e non soltanto con l'occhio, ma pur sempre di vedere, il concretarsi di una nozione di "immagine interna" che è rigorosissima per piani di luce appena modulati dall'ombra che li sottende secondo un proprio ordito. I quali piani sfaccettano un volume cristallino come un diamante, valorizzando il colore quale
veicolo stesso di quella sfaccettatura. Ma le forme in cui si cerca di arrestare questo flusso sono pur sempre dei concetti e non già i corrispettivi di quella Stimmung esistenziale. Per meglio dire, sono i concetti (come accade emblematicamente in Frammenti in un imbuto del 1987), oppure le schegge di realtà contaminate con quei concetti, secondo intrichi di linee e segni. di organico e disorganico, di materico e cerebrale, di naturale e naturalistico e
matematico, a divenire i corrispettivi di quel fluire, per farsi i simboli e le metafore del magma.
E' il caso di Sistemi e anti-sistemi realizzato in quest'ultimo anno che, pur avendo dell'allegoria la macchinosità, è tutto un puro concentrato di materia: simbologia alchemica riverificata, nel momento stesso della sua assunzione negli spessori profondi di un autentico travaglio creativo. In un simile assemblage di ferri, materiali terogenei e tavole dipinte', lo scioglimento dei simboli aggiunge qualcosa di eramente essenziale al godimento dell'opera, che affida alla suggestione delle orme tutto il messaggio, ma delega ai simboli - le mani, le pistole, le lettere ell'alfabeto - una carica straordinaria di riflessione sul valore delle forme stesse e del rocesso inventivo, alla luce di una cultura che si propone il confronto tra l'artista e il mondo.
Annota del resto Micozzi in margine ad un suo quadro: "lo spazio, se separato dalla emporalità della coscienza, resta la dimensione di un corpo privato dell'istanza entale'. In Incubi/succubi del 1996 e in Streghe dell'anno appresso la figura, il nudo emminile, si fa allora retaggio del naturale e si fa un valore spirituale mediatore tra le iverse "facce" del problema. Interfaccia e linea di confine tra le varie occorrenze e ossibilità, dove l'esistenza è un lieve e misurante (e anche pur sempre misurato) luire. Emblema di complessità d'altronde riflessa nell'impasto di materiali utilizzati, al ferro al cuoio alla cartapesta, dalle reti metalliche alle lastre e ai procedimenti di fusione dell'acciaio.
i tratta di "quadri-oggetto" e opere internate nel tema della verità maternale e femminile (dunque naturale), nelle quali ben si rappresenta il parametro di quest'ultima produzione su corpo e macchina. Tuttavia, il topos della macchina non redo serva molto a spiegare la convergenza tra la costellazione della scultura e quella della pittura, anche a livello di "poli maschile e femminile della Psiche'''. In Le sue tavole, ovvero il Violone delle comari del 2002, questo dualismo tendenzialmente li modella sui luoghi della tradizione - dall'utopia alle ipotesi più universalmente ancestrali e spazio-temporali del movimento alla "macchinosità" congenita della struttura come labirinto -, riportando il proprio elemento costitutivo, il metallo, ad una valenza alchemica di pura e naturale materia. Non a caso la Micozzi esorcizza e scongiura l'eventualità di una composizione che sia simbolo e incarnazione dell'autre: simbolo non di regresso e d'intimità, ma della sortita e dell'avventurapsichica, com'è appunto nel Surrealismo. Qui infine si innesta una suap recisa partizione in due grandi direttrici, l'una ascendente e l'altra discendente, il "regime diurno" e il "regime notturno" dell'immaginazione. Sorvolando sulla premessa ermeneutica che riaggancia tali direttrici a tre dominanti riflesse - di tono, di tridimensionalità e di dinamismo -, basterà chiarire che il "regime diurno" è il regime dell'antitesi, della metafisica, mentre quello "notturno" vive costantemente sotto il segno della conversione e dell'enjambement. I meccanismi della "continuazione di un'immagine" sono in ogni caso quelli grazie ai quali lo stesso oggetto-scultura può simboleggiare cose anche perfettamente opposte. Il sogno ad occhi aperti della Micozzi, al fine di unificare la contrapposizione tra superficie dipinta e "macchina scenica", alterna i regimi a contatto con la materia e
col "basso", con la "nerezza". Si tratta di un "regime notturno" che assume un atteggiamento di invasione di campo; mentre invece la tensione verso Valto"
significa alla fine un'adesione per impulso trascendente che ci trascina al cuore terso della coscienza, là dove tutti noi sperimentiamo - come ha scritto suggestivamente Thomas Mann nella Montagna incantata - l-eclissi della ragione".

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